Sono in un luogo montagnoso.
Non sono grandi monti ma neppur più colline. Hanno già gioghi e insenature
da vere montagne, quali se ne vedono sul nostro Appennino tosco-umbro. La vegetazione è folta e bella e vi
è abbondanza di fresche acque, che mantengono verdi i pascoli e ubertosi i frutteti, che sono quasi tutti
coltivati a meli, fichi e uva: intorno alle case questa.
La stagione deve essere di primavera, perchè i grappoli
sono già grossetti, come chicchi di veccia, e i meli hanno già legati i fiori che ora paiono tante palline verdi
verdi, e in cima ai rami dei fichi stanno i primi frutti ancora embrionali, ma già ben formati. I prati, poi, sono
un vero tappeto soffice e dai mille colori. Su essi brucano le pecore, o riposano, macchie bianche sullo
smeraldo dell'erba.
Maria sale, sul suo ciuchino, per una strada abbastanza in buono stato, che deve essere la via maestra.
Sale,
perchè il paese, dall'aspetto abbastanza ordinato, è più in alto.
Il mio interno ammonitore mi dice:
«Questo
luogo è Ebron».
Lei mi parlava di Montana. Ma io non so cosa farci. A me viene indicato con questo nome.
Non so se sia «Ebron» tutta la zona o «Ebron» il paese. Io sento così e dico così.
Ecco che Maria entra nel paese.
Delle donne sulle porte - è verso sera - osservano l'arrivo della forestiera e
spettegolano fra di loro. La seguono con l'occhio e non hanno pace sin chè non la vedono fermarsi davanti ad
una delle più belle case, sita in mezzo del paese, con davanti un orto-giardino e dietro e intorno un ben tenuto
frutteto, che poi prosegue in un vasto prato, che sale e scende per le sinuosità del monte e finisce in un bosco
di alte piante, oltre il quale non so che ci sia.
Tutto è recinto da una siepe di more selvatiche o di rose
selvatiche. Non distinguo bene, perchè, se lei ha presente, il fiore e la fronda di questi spinosi cespugli sono
molto simili e, finchè non c'è il frutto sui rami, è facile sbagliarsi.
Sul davanti della casa, sul lato perciò che
costeggia il paese, il luogo è cinto da un muretto bianco, su cui corrono dei rami di veri rosai, per ora senza
fiori ma già pieni di bocci. Al centro, un cancello di ferro, chiuso. Si capisce che è la casa di un notabile del
paese e di persone benestanti, perchè tutto in essa mostra, se non ricchezza e sfarzo, agiatezza certo. E molto
ordine.
Maria scende dal ciuchino e si accosta al cancello.
Guarda fra le sbarre. Non vede nessuno. Allora cerca di
farsi sentire. Una donnetta, che più curiosa di tutte l'ha seguita, le indica un bizzarro utensile che fa da
campanello. Sono due pezzi di metallo messi a bilico di una specie di giogo, i quali, scuotendo il giogo con
una fune, battono fra di loro col suono di una campana o di un gong.
Maria tira, ma così gentilmente che il suono è un lieve tintinnio, e nessuno lo sente.
Allora la donnetta, una
vecchietta tutta naso e bazza e con una lingua che ne vale dieci messe insieme, si afferra alla fune e tira, tira,
tira. Una suonata da far destare un morto.
«Si fa così, donna. Altrimenti come fate a farvi sentire? Sapete,
Elisabetta è vecchia e vecchio Zaccaria. Ora poi è anche muto, oltre che sordo. Vecchi sono anche i due
servi, sapete? Siete mai venuta? Conoscete Zaccaria? Siete...».
A salvare Maria dal diluvio di notizie e di domande, spunta un vecchietto arrancante, che deve essere un
giardiniere o un agricoltore, perchè ha in mano un sarchiello e legata alla vita una roncola. Apre, e Maria
entra ringraziando la donnetta, ma... ahi! lasciandola senza risposta. Che delusione per la curiosa!
Appena dentro, Maria dice:
«Sono Maria di Gioacchino e Anna, di Nazareth. Cugina dei padroni vostri».
Il vecchietto si inchina e saluta, e poi dà una voce chiamando: «Sara! Sara!».
E riapre il cancello per
prendere il ciuchino rimasto fuori, perchè Maria, per liberarsi dalla appiccicosa donnetta, è sgusciata dentro
svelta svelta, e il giardiniere, svelto quanto Lei, ha chiuso il cancello sul naso della comare.
E, intanto che fa
passare il ciuco, dice:
«Ah! gran felicità e gran disgrazia a questa casa! Il Cielo ha concesso un figlio alla
sterile, l'Altissimo ne sia benedetto! Ma Zaccaria è tornato, sette mesi or sono, da Gerusalemme, muto. Si fa
intendere a cenni o scrivendo. L'avete forse saputo? La padrona mia vi ha tanto desiderata in questa gioia e in
questo dolore! Sempre parlava con Sara di voi e diceva:
"Avessi la mia piccola Maria con me! Fosse ancora
stata nel Tempio! Avrei mandato Zaccaria a prenderla. Ma ora il Signore l'ha voluta sposa a Giuseppe di
Nazareth. Solo Lei poteva darmi conforto in questo dolore e aiuto a pregare Dio, perché Ella è tutta buona.
E
nel Tempio tutti la rimpiangono. La passata festa, quando andai con Zaccaria per l'ultima volta a
Gerusalemme a ringraziare Iddio d'avermi dato un figlio, ho sentito le sue maestre dirmi:
"Il Tempio pare
senza i cherubini della gloria da quando la voce di Maria non suona piùfra queste mura". Sara! Sara! è un
poco sorda la donna mia. Ma vieni, vieni, chè ti conduco io».
Invece di Sara, spunta sul sommo di una scala, che fiancheggia un lato della casa, una donna molto
vecchiotta, già tutta rugosa e brizzolata intensamente nei capelli, che prima dovevano essere nerissimi perché
ha nerissime anche le ciglia e le sopracciglia, e che fosse bruna lo denuncia il colore del volto. Contrasto
strano con la sua palese vecchiezza è il suo stato già molto palese, nonostante le vesti ampie e sciolte.
Guarda
facendosi solecchio con la mano.
Riconosce Maria.
Alza le braccia al cielo in un:
«Oh!»
stupito e gioioso, e
si precipita, per quanto può, incontro a Maria.
Anche Maria, che è sempre pacata nel muoversi, corre, ora,
svelta come un cerbiatto, e giunge ai piedi della scala quando vi giunge anche Elisabetta, e Maria riceve sul
cuore con viva espansione la sua cugina, che piange di gioia vedendola.
Stanno abbracciate un attimo e poi Elisabetta si stacca con un: «Ah!» misto di dolore e di gioia, e si porta le
mani sul ventre ingrossato.
China il viso impallidendo e arrossendo alternativamente. Maria e il servo
stendono le mani per sostenerla, perchè ella vacilla come si sentisse male.
Ma Elisabetta, dopo esser stata un minuto come raccolta in sè, alza un volto talmente radioso che pare
ringiovanito, guarda Maria sorridendo con venerazione come vedesse un angelo, e poi si inchina in un
profondo saluto dicendo:
Maria, con due lacrime che scendono come perle dagli occhi che ridono alla bocca che sorride, col volto
levato al cielo e le braccia pure levate, nella posa che poi tante volte avrà il suo Gesù , esclama:
«L'anima mia
magnifica il suo Signore» e continua il cantico così come ci è tramandato. (Luca 1, 46-55)
Alla fine, al
versetto: «Ha soccorso Israele suo servo, ecc.» raccoglie le mani sul petto e si inginocchia molto curva a
terra, adorando Dio.
Il servo, che si era prudentemente eclissato quando aveva visto che Elisabetta non si sentiva male, ma che
anzi confidava il suo pensiero a Maria, torna dal frutteto con un imponente vecchio tutto bianco nella barba e
nei capelli, il quale con grandi gesti e suoni gutturali saluta di lontano Maria.
«Zaccaria giunge» dice Elisabetta, toccando sulla spalla la Vergine assorta in preghiera.
«Il mio Zaccaria è
muto. Dio lo ha colpito per non aver creduto. Ti dirò poi. Ma ora spero nel perdono di Dio, poichè tu sei
venuta. Tu, piena di Grazia».
Maria si leva e va incontro a Zaccaria e si curva davanti a lui fino a terra, baciandogli il lembo della veste
bianca che lo copre sino al suolo. È molto ampia, questa veste, e tenuta a posto alla vita da un alto gallone
ricamato.
Zaccaria, a gesti, dà il benvenuto, e insieme raggiungono Elisabetta ed entrano tutti in una vasta stanza
terrena molto ben messa, nella quale fanno sedere Maria e le fanno servire una tazza di latte appena munto -
ha ancora la spuma - e delle piccole focacce.
Elisabetta dà ordini alla servente, finalmente comparsa con le mani ancora impastate di farina e i capelli
ancor più bianchi di quanto non siano per la farina che vi è sopra. Forse faceva il pane. Dà ordini anche al
servo, che sento chiamare Samuele, perchè porti il cofano di Maria in una camera che gli indica. Tutti i
doveri di una padrona di casa verso la sua ospite.
Maria risponde intanto alle domande, che Zaccaria le fa scrivendole su una tavoletta cerata con uno stilo.
Comprendo dalle risposte che egli le chiede di Giuseppe e del come si trova sposata a lui. Ma comprendo
anche che a Zaccaria è negata ogni luce soprannaturale circa lo stato di Maria e la sua condizione di Madre
del Messia.
È Elisabetta che, andando presso il suo uomo e posandogli con amore una mano sulla spalla, come per una
casta carezza, gli dice:
«Maria è madre Ella pure. Giubila per la sua felicità».
Ma non dice altro. Guarda
Maria. E Maria la guarda, ma non l'invita a dire di più, ed ella tace.
«La prima delle carità di prossimo va esercitata verso il prossimo.
Non ti paia un giuoco di parole.
La carità si ha verso Dio e verso il prossimo.
Nella carità verso il prossimo è compresa anche quella che va a noi. Ma se ci amiamo più degli altri, non siamo più caritatevoli. Siamo egoisti.
Anche nelle cose lecite occorre esser tanto santi da dare sempre la precedenza ai bisogni del prossimo nostro.
State sicuri, figli, che Dio ai generosi supplisce con mezzi della sua potenza e bontà.
Questa certezza mi ha spinta a Ebron per sovvenire la parente nel suo stato. E alla mia attenzione di soccorso umano, Dio, dando oltre misura come Egli usa, unisce un impensato dono di soccorso soprannaturale.
Io vado per portare aiuto materiale, e Dio santifica la mia retta intenzione col fare, di essa, santificazione del frutto del seno di Elisabetta e, attraverso a questa santificazione, per cui il Battista fu presantificato, annullare la sofferenza fisica della matura figlia d'Eva concepente ad età inusata.
Elisabetta, donna di fede intrepida e di fiducioso abbandono al volere di Dio, merita di comprendere il mistero chiuso in me.
Lo Spirito le parla attraverso il balzare del suo seno.
Il Battista ha pronunciato il suo primo discorso di Annunziatore del Verbo attraverso i veli e i diaframmi di vene e di carne, che lo separano e insieme lo uniscono alla sua santa genitrice.
Nè io nego, a lei che ne è degna e alla quale la Luce si svela, la mia qualità di Madre del Signore. Negarla sarebbe stato negare a Dio la lode che era giusto dargli, la lode che portavo in me e che, non potendola dire ad alcuno, dicevo alle erbe, ai fiori, alle stelle, al sole, ai canori uccelli e alle pazienti pecore, alle acque canterine e alla luce d'oro che mi baciava scendendo dal cielo.
Ma pregare in due è più dolce che dire da sole la nostra preghiera.
Avrei voluto che tutto il mondo sapesse la mia sorte, non per me, ma perchè a me si unisse per lodare il mio Signore.
La prudenza mi ha vietato di rivelare a Zaccaria la verità. Sarebbe stato andare oltre l'opera di Dio. E se io ero la sua Sposa e Madre, ero sempre la sua Serva e non dovevo, perchè Egli mi aveva amata oltre misura, permettermi di sostituirmi a Lui e di superarlo in un decreto.
Elisabetta, nella sua santità, comprende e tace.
Perché chi è santo è sempre remissivo e umile.
Il dono di Dio deve farci sempre più buoni. Più da Lui riceviamo e più dobbiamo dare. Perchè più riceviamo e più è segno che Egli è in noi e con noi. E più Egli è in noi e con noi, e più noi dobbiamo sforzarci a raggiungere la sua perfezione. Ecco perchè io, posponendo il mio lavoro, lavoro per Elisabetta. Non mi lascio prendere dalla paura di non avere tempo.
Dio è padrone del tempo.
A chi spera in Lui, anche nelle cose usuali, Egli provvede.
L'egoismo non affretta, ritarda.
La carità non ritarda, affretta.
Tenetevelo sempre presente. Quanta pace nella casa di Elisabetta! Se non avessi avuto il pensiero di Giuseppe e quello, quello, quello del mio Bambino che era il Redentore del mondo, sarei stata felice. Ma già la Croce gettava la sua ombra sulla mia vita e, come suono funebre, sentivo le voci dei Profeti... Mi chiamavo Maria. L'amarezza era sempre mescolata alle dolcezze che Dio versava nel mio cuore. Ed è sempre andata aumentando sino alla morte del Figlio mio. Ma quando Dio ci chiama, Maria, ad una sorte di vittime per il suo onore, oh! dolce esser frante come grano nella mola, per fare del nostro dolore il pane che corrobora i deboli e li fa capaci di raggiungere il Cielo!