Proseguono la strada per la fresca valle che va in direzione est-ovest. Poi piegano lievemente a nord per costeggiare un colle che sporge e raggiungono così la via, che da Gerusalemme conduce a Betlemme, proprio presso il cubo sormontato da una cupoletta tonda della tomba di Rachele.
Tutti si accostano a pregare con riverenza.
«Qui abbiamo sostato io e Giuseppe... È tutto uguale come allora. Solo differisce la stagione. Allora era una fredda giornata di casleu. Aveva piovuto e le strade si erano fatte pantanose, poi era venuto vento gelido e forse nella notte era venuta brina. Le strade si erano indurite ma, tutte solcate dai carri e dalle folle, erano come un mare pieno di buche, e il mio asinello faticava molto...»
«E tu no, Madre mia?»
«Oh! io avevo Te!...» e lo guarda con un tal viso beato che commuove.
Poi riprende a parlare:
«Veniva la sera e Giuseppe era molto preoccupato... Si stava levando sempre più forte un vento tagliente... La gente si affrettava verso Betlemme, urtandosi l'una coll'altra, e molti insolentivano il mio asinello che andava così piano, cercando il posto dove mettere gli zoccoli... Pareva sapesse che c'eri Tu... e che facevi l'ultimo sonno nella cuna del mio seno. Faceva freddo... Ma io ero in un ardore. Ti sentivo venire... »
«Venire? Potresti dire: "C'ero, Mamma, da nove mesi".»
«Sì. Ma ora era come Tu venissi dai Cieli. I Cieli si abbassavano, si abbassavano su me, ed io ne vedevo gli splendori... Vedevo ardere la Divinità nella sua gioia del prossimo tuo natale, e quei fuochi mi penetravano, mi incendiavano, mi astraevano... da tutto... Freddo... vento... folle... nulla! Io vedevo Dio... Ogni tanto, con sforzo, riuscivo a riportare il mio spirito sulla terra e sorridevo a Giuseppe, che aveva paura del freddo e della fatica per me, e che guidava l'asinello per tema che inciampasse, e che mi ravvolgeva nella coperta per tema che mi raffreddassi... Ma nulla poteva accadere. Le scosse io non le sentivo. Mi pareva di procedere su un cammino di stelle, fra nuvole di candore, sorretta da angeli... E sorridevo... Prima a Te... Ti guardavo, attraverso le barriere della carne, dormire coi pugnelli stretti nel tuo lettino di rose vive, mio boccio di giglio... Poi sorridevo allo sposo così afflitto, così afflitto, per rincuorarlo... Poi alla gente, che non sapeva che già respirava nell'aura del Salvatore... Sostammo presso la tomba di Rachele per fare riposare un momento l'asinello e per mangiare un poco di pane e ulive, le nostre provviste da poveri. Ma io non avevo fame. Non potevo avere fame... Ero nutrita dalla mia gioia... Riprendemmo il cammino... Venite. Vi mostro dove incontrammo il pastore... Non abbiate tema che io sbagli. Io rivivo quell'ora e ritrovo ogni luogo perché vedo tutto attraverso ad una gran luce angelica. Forse lo stuolo angelico è di nuovo qui, invisibile ai corpi, ma visibile alle anime col suo luminoso candore, e tutto si svela, e tutto è indicato. Essi non possono sbagliare, e mi conducono... per gioia mia, e per gioia vostra. Ecco, da quel campo a questo venne Elia con le sue pecore, e Giuseppe gli chiese del latte per me. E lì, in quel prato, sostammo mentre lui mungeva il latte caldo e ristoratore, e dava i suoi consigli a Giuseppe. Venite, venite... Ecco, ecco il sentiero dell'ultima valletta prima di Betlemme. Abbiamo preso questo perchè la strada principale, nella imminenza della città, era un arruffio di persone e di cavalcature... Ecco Betlemme! Oh! cara! Cara terra dei miei padri che mi hai dato il primo bacio di mio Figlio! Ti sei aperta, buona e fragrante come il pane di cui hai il nome, per dare il Pane vero al mondo morente di fame! Mi hai abbracciata, tu in cui è rimasto il materno amore di Rachele, come una madre, terra santa della davidica Betlemme, primo tempio al Salvatore, alla Stella del mattino nata da Giacobbe per segnare la rotta dei Cieli a tutta l'Umanità! Guardatela come è bella in questa primavera! Ma anche allora, benché i campi ed i vigneti fossero spogli, era bella! Un velo leggero di brina tornava a splendere sui rami nudi, ed essi divenivano spolverati di diamanti, come fossero avvolti in un impalpabile velo paradisiaco. Ogni casa fumava nel suo camino per l'imminente cena, e il fumo, salendo di scaglione in scaglione fino a questo ciglio, mostrava la città essa pure velata... Tutto era casto, raccolto, in attesa... di Te, di Te, Figlio! La terra ti sentiva venire... E ti avrebbero sentito anche i betlemmiti, perchè cattivi non sono, anche se voi non lo credete. Non potevano ospitarci... Nelle case oneste e buone di Betlemme si pigiavano, arroganti come sempre, sordi e superbi, quelli che anche ora lo sono, ed essi non potevano sentire Te... Quanti farisei, sadducei, erodiani, scribi, esseniti c'erano mai! Oh! il loro essere ottusi ora viene ancora dall'essere stati duri di cuore allora. Hanno chiuso il cuore all'amore verso la loro povera sorella quella sera... e sono rimasti, e restano nelle tenebre. Hanno respinto Dio fin d'allora, respingendo da loro l'amore del prossimo. Venite. Andiamo alla grotta. In città è inutile entrare. I più grandi amici del mio Bambino non ci sono più. Resta la natura amica, nelle sue pietre, nel suo rio, nelle sue legna per fare fuoco. La natura che ha sentito venire il suo Signore... Ecco, venite sicuri. Si gira di qui... Ecco là le macerie della torre di Davide. Oh! cara a me più di una reggia! Benedette rovine! Benedetto rio! Benedetta pianta che come per miracolo ti spogliasti, col vento, di tanti rami perché noi trovassimo legna e potessimo far fuoco!».
Maria scende svelta verso la grotta, valica il piccolo rio su una tavola che fa da ponte, corre sullo spiazzo che è davanti alle macerie e cade in ginocchio sulla soglia della grotta, si curva e ne bacia il suolo. La seguono tutti gli altri. Sono commossi... Il bambino, che non la lascia un istante, sembra che ascolti una meravigliosa storia, e i suoi occhietti neri bevono parole e gesti di Maria non perdendone uno solo.
Maria si rialza ed entra dicendo:
«Tutto, tutto come allora!... Ma allora era notte... Giuseppe fece lume al mio entrare. Allora, solo allora, smontando dall'asinello, sentii quanto ero stanca e gelata... Un bue ci salutò, andai ad esso, per sentire un poco di calore, per appoggiarmi al fieno... Giuseppe qui, dove io sono, stese il fieno a farmi letto e lo asciugò per me come per Te, Figlio, alla fiammata accesa in quell'angolo... perchè era buono come un padre nel suo amore di sposo-angelo... E tenendoci per mano, come due fratelli spersi nel buio della notte, mangiammo il nostro pane e cacio, e poi egli andò là, ad alimentare il fuoco, levandosi il mantello per fare ostacolo all'apertura... In realtà calò il velo davanti alla gloria di Dio che scendeva dai Cieli, Tu, mio Gesù... ed io stetti sul fieno, al tepore dei due animali, ravvolta nel mio mantello e con la coperta di lana... Caro sposo mio!... In quell'ora trepida in cui ero sola davanti al mistero della prima maternità, sempre colma di ignoto per una donna, e per me, nella mia unica maternità, colma anche del mistero di che sarebbe stato vedere il Figlio di Dio emergere da carne mortale, egli, Giuseppe, mi fu come una madre, un angelo fu... il mio conforto... allora, sempre... E poi il silenzio e il sonno che caddero ad avviluppare il Giusto... perché non vedesse ciò che era per me il quotidiano bacio di Dio... E per me, dopo l'intermezzo delle umane necessità, ecco le onde smisurate dell'estasi, venienti dal mare paradisiaco, e che mi sollevavano di nuovo sulle creste luminose sempre più alte, portandomi su, su, con loro, in un oceano di luce, di luce, di gioia, di pace, di amore, fino a trovarmi persa nel mare di Dio, del seno di Dio... Una voce dalla terra, ancora: "Dormi, Maria?". Oh! così lontana!... Un'eco, un ricordo della terra!... E così debole che l'anima non si scuote, e non so con che rispondo, mentre salgo, salgo ancora in questo abisso di fuoco, di beatitudine infinita, di preconoscimento di Dio... fino a Lui, a Lui... Oh! ma sei Tu che mi sei nato, o sono io che sono nata dai trini Fulgori, quella notte? Sono io che ho dato Te, o Tu mi hai aspirata per darmi? Non so... E poi la discesa, di coro in coro, di astro in astro, di strato in strato, dolce, lenta, beata, placida come quella di un fiore portato in alto da un'aquila e poi lasciato andare, e che scende lentamente, sull'ali dell'aria, fatto più bello per una gemma di pioggia, per un briciolo di arcobaleno rapito al cielo, e si ritrova sulla zolla natia... Il mio diadema: Tu! Tu sul mio cuore... Seduta qui, dopo averti adorato in ginocchio, ti ho amato. Finalmente ti ho potuto amare senza barriere di carne, e da qui mi sono mossa per portarti all'amore di quello che come me era degno d'amarti fra i primi. E qui, fra queste due rustiche colonne, ti ho offerto al Padre. E qui Tu hai riposato per la prima volta sul cuore di Giuseppe... E poi ti ho fasciato e insieme ti abbiamo deposto qui... Io ti cullavo mentre Giuseppe asciugava il fieno alla fiamma e lo teneva caldo poi mettendolo sul suo petto, e poi li, ad adorarti tutti e due, così, così, curvi su Te come io ora, a bere il tuo respiro, a vedere a che annichilimento può condurre l'amore, a piangere le lacrime che si piangono certo in Cielo per la gioia inesausta di vedere Dio».
Maria, che è andata e venuta nella sua rievocazione, accennando i posti, affannata d'amore, con un bagliore di pianto nell'occhio azzurro e un sorriso di gioia sulla bocca, si curva realmente sul suo Gesù, che si è seduto su un grosso sasso mentre Lei rievoca, e lo bacia fra i capelli, piangendo, adorando come allora...
«E poi i pastori... essi dentro, qui, ad adorare col loro animo buono e col gran sospiro della terra che entrava con loro, nel loro odore di umanità, di greggi, di fieni; e fuori, e ovunque, gli angeli, ad adorarti col loro amore, i loro canti non ripetibili da creatura umana, e con l'amore dei Cieli, con l'aere dei Cieli che entrava con essi, che portavano essi, fra i loro fulgori... La tua nascita, benedetto!... Mariasi è inginocchiata a fianco del Figlio e piange di emozione col capo piegato sui ginocchi di Lui. Nessuno osa parlare per qualche tempo. Più o meno emozionati i presenti si guardano intorno, come se fra le ragnatele e le pietre scabre sperassero vedere dipinta la scena descritta...
Maria si riprende e dice:
«Ecco, io ho detto la infinitamente semplice e infinitamente grande nascita del Figlio mio. Con il mio cuore di donna, non con sapienza di maestro. Altro non c'è, perchè fu la cosa più grande della terra, nascosta sotto le apparenze più comuni».
«Ma il giorno dopo? E poi ancora?»
chiedono in molti, fra cui le due Marie. «Il giorno dopo? Oh! molto semplice! Fui la madre che dà il latte al suo bambino e che lo lava e fascia come tutte le madri fanno. Scaldavo l'acqua presa al rio sul fuoco acceso li fuori, perchè il fumo non facesse piangere due occhietti azzurri, e poi nell'angolo più riparato, in un vecchio mastello, lavavo la mia Creatura e la mettevo in panni freschi. E al rio andavo a lavare i pannolini e li stendevo al sole... e poi, gioia fra le gioie, mettevo Gesù alla mammella, e Lui succhiava divenendo più colorito, e felice... Il primo giorno, nell'ora più calda, andai a sedermi lì fuori per vederlo bene. Qui la luce filtra, non entra, e lume e fiamma davano bizzarri aspetti alle cose. Andai lì fuori, al sole... e guardai il Verbo incarnato. La Madre ha allora conosciuto il Figlio e la serva di Dio il suo Signore. E fui donna e adoratrice... Poi la casa di Anna... i giorni alla tua cuna, i primi passi, la prima parola... Ma questo fu poi, a suo tempo... E nulla, nulla fu pari all'ora del tuo nascere... Solo al ritorno a Dio io ritroverò quella pienezza...»
Io, Maria, ho redento la donna con la mia Maternità divina.
Ma non fu che l'inizio della redenzione della
donna, questo.
Negandomi ad ogni umano sponsale col voto di verginità, avevo respinto ogni soddisfazione concupiscente meritando grazia da Dio. Ma non bastava ancora.
Perché il peccato d'Eva era albero di quattro rami:
superbia,
avarizia,
golosità,
lussuria.
E tutti e quattro andavano stroncati prima di sterilire l'albero dalle
radici.
Umiliandomi sino al profondo, ho vinto la superbia.
Mi sono umiliata davanti a tutti. Non parlo della mia umiltà verso Dio. Questa è dovuta all'Altissimo da ogni
creatura. L'ebbe il suo Verbo. La dovevo avere io, donna.
Ma hai mai riflettuto quali umiliazioni dovetti
subire, e senza difendermi in nessuna maniera, da parte degli uomini?
Anche Giuseppe, che era giusto, mi aveva accusata nel suo cuore. Gli altri, che giusti non erano, avevano peccato di mormorazione verso il mio
stato, e il rumore delle loro parole era venuto come onda amara a frangersi contro la mia umanità .
E furon le prime delle infinite umiliazioni che la mia vita di Madre di Gesù e del genere umano mi
procurarono.
Umiliazioni di povertà,
umiliazioni di profuga,
umiliazioni per rimproveri di parenti e amici che, non sapendo la verità, giudicavano debole il mio modo d'esser madre verso il mio Gesù fatto giovane uomo,
umiliazioni nei tre anni del suo ministero,
umiliazioni crudeli nell'ora del Calvario,
umiliazioni fin nel dover riconoscere che non avevo di che comperare luogo e aromi per la sepoltura del Figlio mio.
Ho vinto l'avarizia dei Progenitori rinunciando in anticipo di tempo alla mia Creatura.
Una madre non rinuncia mai che forzatamente alla sua creatura. La chiedano al suo cuore la patria, l'amore di
una sposa, o Dio stesso, ella recalcitra alla separazione. È naturale. Il figlio ci cresce in seno e non è mai reciso completamente il legame che tiene la sua persona congiunta alla nostra. Se anche è spezzato il canale
del vitale ombelico, resta sempre un nervo che parte dal cuore della madre, un nervo spirituale e più vivo e
sensibile di un nervo fisico, il quale si innesta nel cuore del figlio. E si sente stirare sino allo spasimo se
l'amore di Dio o di una creatura, o le esigenze della patria, allontanano il figlio dalla madre. E si spezza
lacerando il cuore se la morte strappa un figlio ad una madre.
Ed io ho rinunciato, dal momento che l'ho avuto, al Figlio mio. A Dio l'ho dato. A voi l'ho dato. Io, del Frutto
del mio seno, me ne sono spogliata per riparare al furto di Eva del frutto di Dio.
Ho vinto la golosità, e del sapere e del godere, accettando di sapere unicamente ciò che Dio voleva sapessi,
senza chiedere a me o a Lui più di quanto mi fosse detto.
Ho creduto senza investigare.
Ho vinto la golosità del godere, perchè mi sono negata ogni sapore di senso. La mia carne l'ho messa sotto ai piedi. La carne, strumento di Satana, l'ho confinata con Satana sotto al mio calcagno per farmene scalino per avvicinarmi al Cielo. Il Cielo! La mia meta. Là dove era Dio. L’unica mia fame. Fame che non è gola ma necessità benedetta da Dio, il quale vuole che appetiamo di Lui.
Ho vinto la lussuria, la quale è la golosità portata all'ingordigia. Perchè ogni vizio non frenato conduce ad un
vizio più grande. E la golosità di Eva, già riprovevole, la condusse alla lussuria. Non le bastò più il darsi
soddisfazione da sola. Volle spingere il suo delitto ad una raffinata intensità, e conobbe e si fece maestra di
lussuria al compagno. Io ho capovolto i termini e, in luogo di scendere, sono sempre salita. In luogo di far
scendere, ho sempre attirato in alto, e del mio compagno, un onesto, ho fatto un angelo.
Ora che possedevo Iddio e con Lui le sue ricchezze infinite, mi sono affrettata a spogliarmene dicendo:
"Ecco, sia fatta per Lui e da Lui la tua volontà".
Casto è colui che ha ritenutezza non solo di carne, ma anche di affetti e di pensieri.
Io dovevo esser la Casta per annullare l'Impudica della carne, del cuore e della mente.
E non uscii dal mio ritegno dicendo neppure del mio Figlio, unicamente mio sulla terra come era unicamente
di Dio in Cielo: " Questo è mio e lo voglio ".
Eppure non bastava ancora per ottenere alla donna la pace perduta da Eva.
Quella ve la ottenni ai piedi della
Croce.
Nel veder morire Quello che tu hai visto nascere. Nel sentirmi strappare le viscere al grido della mia
Creatura che moriva, sono rimasta vuota di ogni femminismo: non più carne ma angelo.
Maria, la Vergine
sposata allo Spirito, morì in quel momento. Rimase la Madre della Grazia, quella che vi ha dal suo tormento
generata la Grazia e ve l'ha data. La femmina che avevo riconsacrata donna la notte del Natale, ai piedi della
Croce acquistò i mezzi di divenire creatura dei Cieli.
Questo ho fatto io per voi, negandomi ogni soddisfazione anche santa.
Di voi, ridotte da Eva femmine non
superiori alle compagne degli animali, ho fatto, sol che lo vogliate, le sante di Dio.
Sono ascesa per voi.
Come feci con Giuseppe, vi ho portate più in alto.
La roccia del Calvario è il mio monte degli Ulivi. Da lì
presi il balzo per portare ai Cieli l'anima risantificata della donna insieme alla mia carne, glorificata per aver
portato il Verbo di Dio e annullato in me anche l'ultima traccia di Eva, l'ultima radice di quell'albero dai
quattro venefici rami e dalla radice confitta nel senso, che aveva trascinato alla caduta l'umanità e che fino
alla fine dei secoli e all'ultima donna vi morderà le viscere.
Da là, dove ora splendo nel raggio dell'Amore, io
vi chiamo e vi indico la Medicina per vincere voi stesse: la Grazia del mio Signore e il Sangue del Figlio
mio.